Una donna di sessant’anni, residente in Lombardia, è stata condannata dal Tribunale di Prato per una serie di condotte ritenute lesive della privacy e della dignità di numerosi uomini contattati tramite social network.
Secondo la ricostruzione degli inquirenti, la donna avrebbe creato profili falsi fingendosi una giovane, allo scopo di entrare in contatto con uomini sposati o conviventi e instaurare con loro uno scambio di messaggi a contenuto intimo. Una volta ottenuto materiale privato, lo avrebbe inviato direttamente alle partner delle persone coinvolte, presentandosi come una sorta di “difensore” delle donne tradite.
Prato, “vendicava” donne tradite adescando i mariti online:
La vicenda trae origine da un episodio legato a una coppia di Prato. L’uomo aveva accettato una richiesta di amicizia da un profilo femminile sconosciuto, con cui era stata avviata una conversazione sempre più personale. Dopo alcune settimane, le comunicazioni private sono state recapitate alla compagna dell’uomo e successivamente ad alcuni suoi conoscenti.
A questo è seguito un lungo periodo di pressioni, comunicazioni invasive e monitoraggio dei movimenti della coppia, che ha portato la vittima a rivolgersi alle forze dell’ordine e a sporgere denuncia. Nel corso delle indagini è emerso che la donna non avrebbe agito da sola: risulterebbe coinvolto anche il figlio, che l’avrebbe aiutata nella creazione dei falsi profili e nella ricerca di informazioni sulle persone individuate come possibili obiettivi. Per entrambi è arrivata la condanna: 2 anni e 4 mesi per la donna, 1 anno e 8 mesi per il figlio, con le accuse di sostituzione di persona, diffamazione e atti persecutori.
Il caso ha acceso l’attenzione su un fenomeno che sfrutta l’ambiente digitale come terreno per forme di controllo, umiliazione o ritorsione basate su presunte infedeltà. La sentenza sottolinea che nessuna motivazione personale può giustificare la divulgazione non autorizzata di materiale privato o la costruzione di identità fittizie finalizzate a colpire o esporre pubblicamente altri individui. La vicenda si chiude con una condanna che riafferma il principio della tutela della privacy e della dignità delle persone anche all’interno delle relazioni personali e sentimentali.








