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Disturbi alimentari: in un anno oltre 3mila morti in Italia

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La Campania fanalino di coda di disturbi legati ai comportamenti alimentari. Oltre 600 persone all’anno in Campania soffrono di queste patologie oltre agli obesi gravi.

Disturbi alimentari in Campania: campanello d’allarme

Assieme a Calabria e Sardegna la Campania è fanalino di coda nella prevenzione e cura dei disturbi del comportamento alimentare (anoressia, bulimia, binge eating), nonostante la presenza sul territorio di presidi ospedalieri formalmente attrezzati a trattare queste patologie.

«Nella mappa messa a punto dal Ministero della Salute, assieme ad altre Regioni del centro Sud, la Campania è maglia nera: manca del tutto una struttura riabilitativa residenziale, ad esempio.» afferma Alessandro Raggi, psicologo psicoterapeuta, Responsabile del centro Psicoterapicamente di Napoli e coordinatore Nazionale della rete ANANKE per la cura dei disturbi del comportamento alimentare, che incalza: «La nostra Regione presenta dati allarmanti per quanto riguarda l’obesità infantile, mentre i dati su anoressia e bulimia sono incongrui rispetto a quelli nazionali. Disponiamo di dati scarsamente attendibili, poco aggiornati e fruibili, nonostante sulla carta sembrino non mancare le strutture preposte. Nel 2016 sono morte in Italia oltre 3000 persone per queste malattie e si tratta di dati provenienti dai ricoveri ospedalieri».

Le persone chiedono aiuto per far fronte a questa problematica ma le strutture sono insufficienti, la rete tra i vari livelli di assistenza è inadeguata ed è assente una regia di coordinamento tra pubblico e privato, tra ricerca scientifica e clinica.  Sarebbe opportuna anche una riqualificazione di molte figure atte a formulare la prima diagnosi in maniera tempestiva: psichiatri territoriali, pediatri, medici di base.

Conclude Raggi: «I familiari necessitano anche loro di una presa in carico, di persone competenti che li supportino nel difficile momento che stanno vivendo e che diano loro un aiuto nella gestione dei propri figli, che spesso rifiutano le cure e le indicazioni dei sanitari. Queste patologie mettono in seria crisi il nostro modello di cura, che in questi casi deve incentrarsi maggiormente sul dialogo, sulla capacità di ascolto e comunicazione – verso i pazienti e i loro familiari; sull’equipe, l’integrazione e lo scambio, la multidisciplinarietà – dal lato dei curanti»

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