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Istruzione, il vero termometro del benessere di un Paese. E l’Italia arranca

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Immagine di repertorio
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Il livello di istruzione di un Paese è molto più di un semplice indicatore statistico: è un termometro del suo stato di salute sociale, economico e persino sanitario. Che un’istruzione più alta porti a migliori opportunità lavorative e a un impatto positivo sul Pil è un’evidenza consolidata. Meno immediata, ma altrettanto rilevante, è la relazione tra istruzione e benessere generale, compresa la spesa sanitaria: cittadini più istruiti tendono ad adottare stili di vita più sani, prevenire malattie e interagire meglio con i servizi sanitari.

Eppure, l’Italia fa fatica a tenere il passo. A dirlo è il Rapporto annuale Istat 2025, che fotografa una situazione preoccupante con riferimento ai dati del 2023. Nella fascia d’età tra i 25 e i 64 anni, solo il 65,5% degli italiani ha almeno un diploma di scuola superiore. La media europea? Ben il 79,8%. Ma il divario si fa ancora più marcato quando si guarda al numero di laureati: appena il 21,6% contro una media UE del 35,1%. Un distacco netto, che rende evidente quanto il nostro sistema educativo sia in affanno nel confrontarsi con gli standard europei.

Eppure, l’obiettivo è chiaro. Nel febbraio 2021, il Consiglio dell’Unione Europea ha adottato una risoluzione che fissa una direzione comune per gli Stati membri: si tratta del Quadro strategico per lo Spazio europeo dell’istruzione (2021–2030). All’interno di questo piano, uno dei traguardi principali è portare almeno il 45% dei giovani tra i 25 e i 34 anni a conseguire un titolo di studio universitario entro il 2030.

Un traguardo ambizioso, che però per l’Italia sembra ancora distante. Ad oggi, la quota di giovani laureati si ferma attorno al 31%: un dato che non solo evidenzia il ritardo, ma solleva interrogativi sulla capacità del Paese di investire con efficacia nell’istruzione e nel futuro delle nuove generazioni.

Ma il ritardo nei livelli di istruzione non si misura solo nei titoli conseguiti. Un altro indicatore preoccupante è quello dell’abbandono scolastico precoce: sebbene in calo negli ultimi anni, resta una ferita aperta del sistema educativo italiano.

Nel 2024, quasi uno su dieci tra i giovani italiani di età compresa tra i 18 e i 24 anni ha lasciato scuola e formazione senza ottenere un diploma di scuola superiore. Un dato che, se letto con attenzione, racconta di una fragilità ancora diffusa e profonda.

Le differenze interne sono ancora più allarmanti. Il fenomeno colpisce soprattutto i ragazzi (il tasso sale al 12,2% tra i maschi), è particolarmente acuto nel Mezzogiorno, dove raggiunge il 12,4%, e diventa quasi emergenziale tra i giovani con cittadinanza straniera, per cui il tasso di abbandono scolastico balza al 24,3%: una percentuale che significa, di fatto, che uno su quattro non prosegue oltre la scuola dell’obbligo.

Un quadro che conferma come il problema non sia solo educativo, ma anche sociale, territoriale e culturale. E che, ancora una volta, chiama in causa la capacità del sistema-Paese di offrire pari opportunità a tutti — indipendentemente dal luogo di nascita, dal genere o dallo status familiare.

Le ragioni dietro l’abbandono scolastico, però, sono ben più complesse di quanto si possa pensare. Non c’entrano la pigrizia o la mancanza di volontà da parte dei ragazzi, come spesso si tende superficialmente a credere. Al contrario, molti di loro sono vittime inconsapevoli di un sistema più grande, che li sovrasta e troppo spesso non li sostiene.

Tra le cause principali della dispersione scolastica, gli esperti indicano fattori legati alle difficoltà cognitive e di apprendimento, ma anche alle condizioni socio-economiche delle famiglie: un ambiente fragile, un basso titolo di studio dei genitori, o la mancanza di supporto educativo sono spesso determinanti. Accanto a queste, pesano anche variabili psicologiche: la demotivazione, il senso di inadeguatezza, la perdita di fiducia nelle proprie capacità.

E poi ci sono le cause di sistema, quelle più difficili da affrontare perché radicate nella struttura socioeconomica del Paese. A pesare sono l’insicurezza verso il futuro, la sfiducia nel mercato del lavoro, la mancanza di prospettive reali, ma anche dinamiche più ampie come il declino demografico, la trasformazione dei modelli sociali e familiari, e l’emergere di fenomeni di disagio giovanile, tra cui droga e violenza.

Ma parlare di dispersione scolastica oggi non significa più solo fare i conti con chi abbandona formalmente gli studi. Sempre più centrale è il concetto di dispersione implicita: si tratta di quegli studenti che restano in classe, magari per obbligo o per inerzia sociale, ma che non partecipano davvero alla vita scolastica. Ragazzi e ragazze che non riescono a trarre un reale beneficio dall’esperienza formativa, che faticano a tenere il passo, e che finiscono per ottenere risultati ben al di sotto delle proprie potenzialità. Una scuola che vuole davvero essere inclusiva non può ignorare questo fenomeno. Perché non basta contare quanti restano tra i banchi: bisogna capire chi riesce davvero ad apprendere, a crescere, a costruirsi un futuro. E chi invece si sta spegnendo in silenzio, pur restando seduto al proprio posto.

Se è vero che l’istruzione è la chiave per affrontare le sfide sociali, economiche e ambientali del futuro, allora l’Italia è davanti a un bivio: continuare a restare indietro o colmare, una volta per tutte, il suo storico gap educativo.


Fonti:

https://www.istat.it/wp-content/uploads/2025/05/PILLOLE-PER-LA-STAMPA_RAPPORTO-ANNUALE-2025_rev.pdf 

https://www.invalsiopen.it/perche-dispersione-scolastica/

 

 

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